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ReportageReportage                            Luigino Priori


































                                           La mietituraLa mietitura







            rima che apparissero le più moderne mieti legatrici o le at-  Avevano un linguaggio poetico i nostri conta-
            tuali mietitrebbiatrici, la mietitura veniva fatta tutta a mano,   dini di una volta. A guardarli da lontano, su u-
       Pcon la falce, munita di un archetto, usata in posizione eretta   na delle tante colline che disegnavano e dise-
       con movimento rotatorio del corpo o nei pendii più scoscesi, con
       la “falcetta. Il lavoro manuale s’iniziava di buon mattino, quando   gnano tuttora il paesaggio marchigiano, i co-
       il sole di fine giugno era già alto. Gli uomini, divisi in più squadre,   voni sparsi per i campi sembravano simili ad
       si allineavano all’inizio del campo e procedevano appaiati, dietro   un gregge di pecore accovacciate nei campi.
       venivano le donne con il compito di legare “le cove”, i covoni di   Le donne che venivano dietro alla falciatrice
       grano. La fatica, il caldo, consigliavano di tanto in tanto il giusto   consistevano nel legare i covoni ed ammas-
       riposo sotto l’ombra di qualche albero. La “vergara”, cesto in te-
       sta contenente “il ciambellone”, dolce fatto in casa, pane, ciau-  sarli assieme, per farne “i cavalletti”, mucchi
       scolo, la brocca di vino in una mano, nell’altra quella dell’acqua   di venticinque covoni di grano.
       con pezzi di limone per smorzare di più la sete, depositava il tutto
       sopra una candida tovaglia e si mangiava. Prima di sedersi, gam-  di pecore disseminate per la campagna. Avevano un linguaggio
       be acciambellate e accovacciate in terra, occorreva schiacciare   poetico i nostri contadini di una volta. A guardarli da lontano, su
       opportunamente  le  stoppie  perché  non  pungessero  troppo,  ma   una  delle  tante  colline  che  disegnavano  e  disegnano  tuttora  il
       erano piccoli dettagli ai quali non si faceva caso, importante era   paesaggio marchigiano, i covoni sparsi per i campi sembravano
       rifocillarsi, per riprendere poi il lavoro con più lena. Spesso per   simili ad un gregge di pecore accovacciate nei campi. Le donne
       sentire meno la fatica ed anche per dare quasi un ritmo al lavo-  che venivano dietro alla falciatrice consistevano nel legare i co-
       ro, i mietitori usavano intonare delle canzoni che sono entrate a   voni ed ammassarli assieme, per farne “i cavalletti”, mucchi di
       far parte del nostro repertorio popolare. L’avvento della falciatrice   venticinque covoni di grano, incrociati sei per sei su quattro file,
       meccanica, dotata di barra portalame o pettine, usata per falciare   più uno a formare il pennone, con le spighe di grano rivolte verso
       l’erba e adattata per mietere il frumento, limitava di molto il lavoro   il basso; in caso di pioggia, l’acqua scivolava via senza danneg-
       manuale. Il mezzo veniva trainato dalle mucche, “le vacche” dai   giare il raccolto. Rimanevano nei campi, dieci giorni circa. Anche
       nomi più romantici, che procedevano con andatura costante, né   nella scelta del nome da dare alle cose, erano artisti i contadini di
       troppo lentamente, né troppo veloci per non spezzare il bastone di   una volta. Dopo la pioggia la si attendeva con gratitudine e pun-
       legno fissato trasversalmente ai coltelli, mosso da una biella con   tualmente arrivava quasi sempre, venivano i giorni “de lo raduna”.
       movimento rotatorio, posta all’inizio delle lame. Su un seggiolino   Era allora un andirivieni continuo di “birocci” e “biroccette” che
       di ferro sistemato nel mezzo della falciatrice, un operatore gui-  facevano la spola tra l’aia della casa colonica e la campagna. E-
       dava le mucche; un altro contadino controllava l’operazione della   rano trainati dalle mucche, nell’aia, “il barcò” veniva su come per
       mietitura e quando notava che su una piccola rastrelliera di legno   incanto. Al termine del lavoro, veniva issata sul pennone più alto,
       fissata dietro alla barra portalame, si erano ammassati più steli di   una croce. La sua preparazione era quasi un rito. Si prendevano
       grano, schiacciava con un piede una piccola leva. Il gesto, solle-  due canne, si pulivano, si legavano assieme a formare una croce,
       vando la rastrelliera, lasciava cadere sul terreno, ad intervalli re-  all’estremità veniva infilzata una palma benedetta d’olivo con tre
       golari, le cove sciolte. Si chiamavano “le pecorelle”, forse perché   chicchi di sale ed il tutto veniva fatto benedire il giorno di Santa
       a guardarle da lontano somigliavano quasi a un piccolo gregge   Croce. Aveva il potere di allontanare la grandine.
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